Caro Prandelli,
non so se Lei ricorda, ma alcuni mesi fa ci siamo incontrati in hotel a San Pietroburgo. Si era nel novembre dell’anno corso. Io mi trovavo nella città del nord della Russia, per aprire la conferenza internazionale scientifica, assieme al coordinatore della mia segreteria Renato Barchiesi. Lei era con la Sua signora e suo figlio, un bambino più o meno decenne. Non so per quale ragione Lei fosse lì, presumo per vacanza.
Debbo, per onestà, premettere che io sono uno dei pochi italiani che candidamente confessa di non capirne di calcio, mentre almeno cinquantacinque milioni di miei connazionali sono convinti di poterla sostituire nel suo ruolo di c.t. della nazionale in qualsiasi momento. Però gli occhi e pochi grammi di materia grigia per poter azzardare qualche semplice giudizio, anche su una partita di calcio, credo di possederli. E con essi il diritto di dire sommessamente la mia.
Intanto mi consenta di farLe i complimenti per le Sue dichiarazioni pubbliche, sempre sobrie, assennate, equilibrate. In un epoca in cui tutti urlano Lei sussurra. Complimenti. E poi usa il senno e la grazia di un eloquio educato. Complimenti di nuovo.
Ebbene ieri sera 1 luglio il mio animo era lacerato (non capendo di calcio non seguo le partite del campionato nazionale, preferisco leggere perché sono convinto di imparare qualche cosa di più, ma alcune partite dei campionati europei e mondiali le seguo, specialmente quelle in cui gioca l’Italia: che vuole, è più forte di me!). Dicevo che ieri sera mi sentivo lacerato, perché in gioco c’erano due paesi, uno in cui m’è capitato in sorte di nascere e di vivere, l’Italia, e un altro in cui ho potuto iniziare quel po’ di carriera professionale (critico d’arte) che posseggo e che mi ha dato tantissimo, la Spagna. Ma poiché anch’io, come Lei, preferisco sussurrare anziché gridare, non è che poi mi sia sentito tanto a disagio e non ho temuto di dovermi salomonicamente dividere in due parti (squartare, insomma) per risolvere il conflitto esistenziale. Sicché mi sono accinto a seguire la partita abbastanza tranquillamente. E ho visto. Che cosa? La Spagna che si è mostrata nettamente superiore all’Italia, sin da subito.
Inoltre nella Spagna ho riconosciuto una squadra che conduceva un gioco di squadra, come credo si dovrebbe sempre fare, mentre nell’equipe italiana ho individuato una somma di soggetti (uno, più uno, più uno): magari geniale qualcuno, sfaticato qualche altro, quasi tutti tendenti a infortunarsi (c’entrerà la sfiga? Magari una maledizione a distanza di Angela Merckel?), per lo più inclini a pensare: “quello che non faccio io, lo farà un altro”. Qualche sera prima avevo seguito Italia Germania: le cose sembravano andare un po’ meglio, anche se il difetto di fondo mi è parso sempre quello. Ho visto anche Portogallo Spagna: la Spagna ha vinto, ma il Portogallo, a mio modestissimo parere, ha giocato meglio dei gemelli iberici con una forte sottolineatura di squadra, appunto: sembrava un gioco sinfonico, quello lusitano, tanto era orchestrato.
Caro Prandelli, prenda le mie osservazioni per quel che valgono, cioè poco, per le ragioni che ho sopra esposto.
Infine c’è una cosa che mi ha impressionato: quel gruppo di personaggi in TV (c’è pure una donna, tra loro, con un trucco un po’ clownesco, ovverosia caricato, che sembra recitare la “vispa Teresa” al teatro dell’oratorio, con una gestualità, un po’ patetica, da bambina invecchiata) che sembrano tanti soloni, i quali ragionano, prima e dopo le partite, come se discutessero seriamente, un po’ professori universitari dell’ateneo del football (parola che ha a che fare con la palla e con i piedi). Li sento parlare un po’ affascinato e un po’ sbigottito di geometrie variabili, di numeri che stanno tra l’algebrico e l’alchemico: uno, due, più uno; oppure due ,uno, tre). Danno l’impressione di discutere di geometria euclidea o di filosofia eraclitea e lo fanno con sussiego e con severità, talvolta con saccenza; qualcuno avanza dubbi, qualche altro esprime certezze come uno spara-sentenze. Ma non stanno, in fondo, parlando di un gioco al centro del quale c’è una palla, che è rotonda, e che, spesso (almeno questa è la mia impressione), va un po’ dove le pare? Poi tutti (compresi i telecronisti che mi procurano lo stesso fastidio del ronzio della zanzare), perché dicono sempre “noi” quando le cose vanno bene e il punteggio è positivo, mentre passano repentinamente al “loro” o al “lui” non appena le vicende girano al male? Sarà forse il vecchio vezzo italiano di salire velocissimamente sul carro del vincitore e di scendere, con altrettanta velocità e baldanza, quando le ruote non girano più ? Sa, io mi ricordo, subito dopo la guerra mondiale (la seconda, ovviamente), la sveltezza con cui taluno si toglieva la camicia nera sostituendola con fazzoletti rossi annodati al collo, su alcuni dei quali avevano stampato, con le decalcomanie, i volti di Lenin, di Stalin o di Togliatti.
Caro Prandelli, mi scusi se mi sono permesso di importunarLa, io che di calcio non capisco un’acca. L’ho fatto solo perché ho avuto il piacere, sia pur fugacemente, di conosceraLa quel giorno a San Pietroburgo. Ricorda? Faceva freddo e la Neva incominciava a gelare.
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